Diario Partigiano

Una storia di Resistenza

Val Varaita Febbraio – Marzo 1944

Ai primi di Febbraio ci fu una rappresaglia fascista a Tarantasca e S. Benigno, con fucilazioni di giovani renitenti alla leva. Aumentarono gli scontri, si moltiplicò la guerriglia. Arrivò anche Mario Garbarino, mio amico e compaesano: è giovane, non ha ancora compiuto 17 anni, siamo amici fin dalla prima infanzia e abitiamo nello stesso quartiere. Ha voluto seguirmi in montagna perché vuole fare il partigiano, è deciso e coraggioso, non vede l’ora di entrare in azione. Gli do alcuni consigli per metterlo di fronte alla realtà fatta di sacrifici: la guerriglia non è uno scherzo e la vita di noi giovani è molto importante per un futuro migliore. Entrambi proveniamo da famiglie molto povere, perciò è più vivo in noi questo sentimento.

Il Comando delle formazioni partigiane era composto da “BARBATO” Pompeo Colaianni, da “PIETRO” Gustavo Comollo, dai Commissari “EZIO” e “FRANCO” Bazzanini e da diversi altri validi Comandanti distribuiti nei vari gruppi in tutta la Val Varaita e nella Val Po. Fu un compito non facile organizzare una guerriglia con i pochi mezzi a disposizione, con carenza di armi, vestiario, viveri. Numerose furono le azioni compiute ai danni dei nazifascisti nella pianura tra Saluzzo, Savigliano, Fossano, Busca e Verzuolo.

Il 25 Marzo 1944 ci fu il primo attacco in forze da parte dei tedeschi e fascisti in Val Varaita. Trascorremmo la mattina del 25 Marzo con la madre di Mario e mia sorella Mariuccia, giunte il giorno prima a trovarci. Richetta, la madre di Mario, era assai preoccupata a causa della giovane età del figlio, le lasciammo a Melle con mille promesse, prima che salissero sulla corriera per far ritorno a casa. Raccontarono poi che in quel giorno a Venasca, mentre attendevano il trenino, videro molti soldati tedeschi in assetto di guerra dirigersi con automezzi in vallata, dotati anche di alcuni carri armati e autoblindo. Quelle poverette tremarono per noi, sapendo che avremmo dovuto affrontarli.

Da Melle Mario ed io raggiungemmo la base più vicina, quella del Comandante “BELLINI” Grimaldi Vincenzo, con il vice “CHOPIN” Conte Valchi Savorgnan di Osoppo, un coraggioso giovane di 19 anni proveniente da Pinerolo. Quella stessa mattina al primo attacco tedesco il giovane fu ferito mortalmente e morì con alcuni suoi compagni sparando per difendere la posizione e per coprire le altre squadre partigiane in ritirata. Alla base partigiana facemmo appena in tempo a consumare un po’ di colazione quando arrivò il primo colpo di cannone che centrò il campanile della chiesetta dedicata alla Madonna della Biula: eravamo in pieno attacco tedesco.

I carri armati e gli automezzi nemici erano bloccati prima del ponte Valcurta da una formazione partigiana ben piazzata sul versante opposto ed era tenuta sotto il tiro delle mitraglie per dare la possibilità a “CELE”, un valoroso partigiano, di far saltare il ponte. Purtroppo il tentativo non ebbe buon esito ed i tedeschi riuscirono a spegnere le micce ed avanzare attraverso il ponte; anche il nostro cannone sparò quei pochi colpi che avevamo a disposizione, ma senza alcun congegno di puntamento, solo mirando con il calcolo della traiettoria.

Il giovane Comandante morì accanto al suo cannone . Si chiamava PEIRANO Filippo di Verzuolo. Con diversi partigiani ripiegammo verso Sampeyre al forte di Becetto dove era la nostra base; qui incontrammo un nostro compaesano, Francesco Bellino della frazione Ceretto di Carignano, appartenente ad una numerosa famiglia contadina. Formammo un gruppo di 52 partigiani al comando di un ex militare, il sergente “GAF” di nome Cesare Lazzarotti, un ragazzo alto e robusto, molto bravo. Salimmo verso il colle di Cervetto alto 2250 metri con la speranza che lassù i tedeschi non arrivassero e noi potessimo così sfuggire al rastrellamento.

Sotto il colle c’era ancora molta neve e con difficoltà trovammo un posto al riparo dove trascorrere la notte, disponevamo di poche coperte e pochissimi viveri, l’acqua era lontana e solo di notte la potevamo raggiungere, il fuoco non si poteva accendere, faceva molto freddo ed eravamo mal vestiti, non in condizioni di sostenere a lungo tale situazione. Si udivano spari verso il colle del Prete, un valico che comunica con la Val di Gilba, segno che i tedeschi stavano risalendo nel vallone opposto verso le prime baite sul versante Varaita e precisamente in borgata Chiambetta. Ci raggruppammo uno vicino all’altro per scaldarci; ricordo che avevo i pantaloni strappati e non trovavo né filo né spago per tenerli insieme. I primi quattro giorni li superammo alla meno peggio, vivendo nella fiducia che questo rastrellamento finisse presto, poi i morsi della fame cominciarono a farsi sentire, ma non potevamo muoverci per non esser visti, dato che continuavano i pattugliamenti da parte dei tedeschi.

Quattro partigiani del nostro gruppo, tra cui Bellino di Carignano, scoraggiati da tale situazione che giudicavano insostenibile, decisero di allontanarsi per far ritorno alle loro case, certi di trovare presso le loro famiglie, oltre al vitto, quel calore che qui sognavano e che era diventata una continua ossessione. A nulla valsero i tentativi di convincerli a rimanere, a pazientare ancora qualche giorno: non riuscimmo a trattenerli. Avuto dal Comandante Cesare un po’ di denaro i quattro si congedarono da noi e partirono in direzione del Colle del Prete verso Gilba. Molto tempo dopo venimmo a conoscenza della loro sorte: erano stati catturati dai tedeschi nei pressi di Gilba Alta e maltrattati. Con le spalle cariche di munizioni, quasi fossero dei muli erano scesi a Brossasco e di qui a Melle.

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